di Giovanna Lacedra
“Sbucciami. Spogliami. Sfogliami di dosso questo strato di paure. Rendimi libera. Rendimi nuda, di fronte al mondo e di fronte a me stessa. Voglio espormi, come una ferita senza garze. Voglio espormi, come un’opera fuori dalla sua teca protettiva. Voglio rischiare la vita per mano tua.”
Cut Piece performance – 1964/66
Sono queste le parole che immagino di sentire ogniqualvolta guardo il video di “Cut Piece”, la memorabile performance di Yoko Ono. Potrei anche sbagliarmi. Ma se così fosse, errerei di poco.
Sono quasi certa che se questa fosse una serata di marzo del 1965, ed io mi trovassi lì, al Carneige Recital Hall di New York, con una forbice in mano, ad un passo da lei e dalla sua veste già in parte sfrangiata, leggerei queste parole nel suo sguardo vitreo ed impassibile. “Sbucciami… Spogliami… Sfogliami…” . Taglierei un brandello di stoffa. Le scoprirei un seno. Poi l’altro. Poi parte dello sterno. Cautamente. E so che lei resterebbe così, con lo sguardo fisso altrove, a braccia conserte e gambe incrociate. Felice di essere scoperta e di sapersi indifesa.
Cut Piece. Un atto performativo audace e catartico.
Lei è lì, senza orpelli e senza voce. Indossa null’altro che un lungo abito scuro. E da quell’abito, chiede di essere liberata. Piano. Brandello dopo brandello.
Sono gli spettatori a fare tutto. Viene data loro una forbice: l’arma che la libererà dalla sua buccia.
Sforbiciata dopo sforbiciata, l’anima si alleggerisce. Quasi come a perdere corpo. Quasi come a ritrovare un’identità. Gli strati di menzogne che l’avevano dissimulata cadono, come lembi di un inutile vestito.
Lei è lì, quella sera di marzo del 1965, imperscrutabile come lo è stata durante la sua prima esibizione in Giappone, prima a Kyoto e poi a Tokio.
Appena vent’anni dopo l’esplosione della bomba atomica, la bambina che insieme alla sua famiglia ha vissuto gli orrori della guerra è ora una donna certa del proprio diritto alla libertà e decisa a sfidare le ombre della paura. In silenzio, va a sedersi al centro del palco, incrocia le gambe in posizione meditativa e lascia che il primo spettatore le si avvicini. Gli porge la forbice e lo invita a tagliarle via l’abito-corazza.
Dopo il primo arriva il secondo, e poi il terzo e poi il quarto… e poi l’ennesimo.
Cut Piece performance – frames
I primi spettatori sono timorosi, sferrano timide sforbiciate. Ma con i successivi il ritmo della forbice si fa sempre più veloce. Anche chi taglia perde la paura, e partecipa emotivamente all’azione.
Come scrive lo storico dell’arte Edward Lucie-Smith, “l’artista non crea qualcosa di separato e chiuso, ma piuttosto fa qualcosa per rendere lo spettatore più aperto, più consapevole di se stesso e del suo ambiente”. E chi taglia diventa consapevole del valore di quell’atto. Sa che sta privando l’artista del suo involucro protettivo.
Mentre perde la corazza, Yoko Ono non dà alcun segno di turbamento. Resta ferma, immobile, apparentemente distaccata. L’abito si sfoglia, di sforbiciata in sforbiciata. La sua pelle affiora, come un fiore lunare. E il suo sguardo non tradisce sommosse emozionali.
È ostinata. Sì. Lei non è semplicemente una donna. Lei è la donna. Quella che sa vincere sulle proprie paure. Quella libera da ogni tabù. Quella postmoderna. Che si appartiene e dunque si dona.
Come dichiarò in un’intervista per un magazine londinese:
“Mentre lo facevo, guardavo fisso nel vuoto, mi sentivo un po’ come se stessi pregando. Io sacrificavo volentieri me stessa”
‘Cut Piece’ è stato un atto performativo di grande intensità; una sorta di inno all’autenticità. Il risultato, in chiave artistica, di un percorso intimo e spirituale.
Foto di famiglia
Figlia maggiore di un ricco banchiere giapponese e di una pianista che aveva sacrificato la propria creatività per lavorare in banca, Yoko Ono ha dovuto tagliarsi di dosso la camicia di forza di una educazione rigida e anaffettiva.
Il suo nome significa “bambina dell’oceano”, e la sua personalità fluida e ribelle ne è stata un fedelissimo riflesso.
Nata Tokyo nel 1933 e trasferitasi negli Stati Uniti, è ricordata soprattutto come compagna del grande Jonh Lennon. Eppure non tutti sanno che fu una delle prime sperimentatrici di happening, e che aderì sin da subito al movimento Fluxus, fondato dal lituano-americano George Maciunas con l’ambizione di miscelare arti visive, poesia, musica sperimentale e teatro, creando fluide contaminazioni.
Per Yoko Ono scegliere di seguire la propria vocazione non fu facile.
I suoi genitori desideravano che frequentasse ricche e facoltose famiglie statunitensi. E lei, per tutta risposta, disubbidì. Prese ad incontrare artisti, poeti, bohemienne e anticonformisti di ogni sorta. Si battè per i diritti umani. La ragazzina giapponese dalle buone maniere, scampata allo schock dei bombardamenti, divenne insofferente alle regole. E decise, infine, di sfidare la rigida e algida educazione famigliare.
Quella frustrante rinuncia materna alla creatività divenne per lei un saldo antimodello.
Già sul finire degli anni Cinquanta iniziò a comporre quello che lei stessa definì “un manuale di istruzioni per l’arte e per la vita”: Grapefruit.
Il pensiero liquido, in linea con la storica poetica fluttuante giapponese, qui diventa immagine nella parola. Ogni pensiero è figlio di una data, di una stagione, di un attimo fugace, eternato dall’inchiostro. Dona forma all’energia immaginifica.
Secondo Yoko Ono l’immaginazione è il vero potere dell’essere umano. Può tutto. Può persino fornire strumenti per migliorare la realtà. Lo stesso Lennon confessò di aver preso spunto da alcuni di questi versi per scrivere quella che è divenuta la sua canzone più celebre: Imagine.
Grapefruit è una raccolta di versi asciutti, memori della tradizione haiku. Apparentemente fondati sul paradosso e sul nonsense. E invece magici ed intensi. Liberi, esattamente come un flusso. E profondissimi, quasi come l’oceano.
Frammenti poetici visualizzabili. Versi visivi, che potrebbero essere azioni. Ogni frammento, il concept di una Fluxus performance. Leggendoli si è quasi in quel luogo senza confini in cui tutto accade. Un luogo fluttuante che i più chiamano “fantasia”.
Frammento Pulsante:
“Ascoltatevi le pulsazioni l’un l’altro
mettendo l’orecchio uno sullo stomaco
dell’altro.”
(1963 Inverno)
Frammento dell’acqua:
“Ascolta il suono dell’acqua
sotterranea.”
(1963 primavera)
Frammento lineare III
“Disegna una linea con te stesso.
Continua a disegnare finchè non scompari. ”
(1964 Primavera)
Frammento di vento:
“Taglia un dipinto a pezzi e lascia che si perdano nel vento”
(1962 estate)
Frammento dell’Ombra:
“Metti insieme le tue ombre
finchè diventano una sola”
(1963)
Frammenti fluidi, che sfidano la plausibilità del reale. Fluxus-Haiku.
Parole alchemiche, che hanno permesso alla bambina dell’oceano di ascoltare la sua anima fluttuante.
Filed under: WOMAN'S ART, arte contemporanea, Fluxus, giovanna lacedra, performance, PERFORMING ART, Yoko Ono performer