WOMAN's JOURNAL

Amo qualcun altro

Chi aveva scritto: l’amore è un apostrofo rosa tra le parole “ti amo”? Valentina stava percorrendo per l’ennesima volta la strada avvolta dal metallo del tram, che da un po’ di mesi era diventato la sua trappola d’amore. Amore per qualcuno che continuava a sorriderle e che per l’ennesima volta era sceso, l’aveva abbracciata distrattamente e poi lasciata sul marciapiede con il cuore graffiato stretto fra le mani. Oggi era San Valentino. Si era pettinata i capelli con cura, cosparsa il corpo di creme profumate, aveva truccato gli occhi con l’ombretto grigio, indossato il cappottino nero e gli stivaletti con il tacco. Tutto il possibile per essere perfetta in quei cinque minuti di viaggio insieme. Ma niente era successo, niente stava succedendo e niente sarebbe mai stato. Come sempre, camminando soffocava un singhiozzo di delusione, cercando di spingerlo il più in basso possibile, cosicché non potesse uscirle dalla bocca.

“Allora… Prendo un succo alla pesca, un tramezzino cotto e formaggio e… un cappuccino, grazie”.

Sfogliava annoiata le pagine del libro Valentina, alternando un morso ad un sorso.

“Non credo che il cappuccino ti aiuti a studiare…”

Lei alza la testa. Due occhi scuri lentamente si stavano avvicinando, “Che cosa stai leggendo?”

“Sto solo cercando di…” Strano, non le venivano le parole. Era paralizzata da quelle mani bellissime che rapidamente pulivano via le briciole. “Ecco… Sto cercando di leggere degli articoli… per la mia classe…” Sembrava quasi che oltre al tavolo le stesse dando una pulitina anche al cuore. Ma c’era così tanta polvere che quasi si sentiva soffocare.

“Bene, sono contento che tu sia qui. Continua a leggere, non volevo distrarti. Solo che eri buffa mentre bevevi il cappuccino… Ora ti porto un caffè, vedrai che così riuscirai a lavorare meglio!”

“Ok, sei molto gentile. E comunque io sono Valentina”.

“Buon San Valentino Valentina!” aveva risposto da dietro il bancone, continuando a fissarla, come se già avesse capito chi era.

Valentina si gira verso lo specchio appeso alla parete. Controlla di essere veramente lì.

Arrivata a casa apre il quaderno e scrive: “Che strana sensazione. Pensare di essere presa da lui, soffrire per l’amore lontano e, allo stesso tempo, desiderare di rivedere qualcuno che non conosci, non sai chi è, ma che ti ha reso la giornata speciale… Oggi ho ritrovato il mio apostrofo rosa: era disperso tra le parole qualcun altro!”.

 

Foto: Gaia Nina Marano.

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PER VOCE CREATIVA: Giovanna Lacedra intervista Jara Marzulli / blog Woman’s Art

“PER VOCE CREATIVA” è un ciclo di interviste riservate – e dedicate – alle donne del panorama artistico italiano contemporaneo. Ad inaugurarlo, l’incontro con Jara Marzulli (Bari, 1977).

Jara è una pittrice dallo sguardo molto intimo e materno. Ha studiato presso l’Accademia di Belle Arti di Bari, insegna discipline artistiche ed è madre di due bambini, oltre ad esserlo delle sue tele. Tele sempre poeticamente pervase di corpi.

Già a partire dalla prima serie, intitolata “Strisce”, il corpo femminile diventa tema centrale ed essenziale della sua ricerca. Corpi feriti, fasciati, corpi gravidi;  corpi legati ad altri corpi. Garze, cerotti, lunghe ciocche di capelli, nastri di raso. Sangue. E più recentemente fiori ed insetti.

Donne, madri e bambine popolano le sue tele. L’identità femminile passa attraverso l’identità corporea.  E questo accade sin dall’infanzia. Immediatamente sei il tuo corpo che sente. E sente incessantemente: il legame, la distanza, la fusione e l’orrore del vuoto.

Jara dipinge con una tale sapienza tecnica, da potersi permettere quel graduale percorso verso la sintesi stilistica, che oggi sembra aver intrapreso.

 

Jara Marzulli

G.: Cos’è una Donna secondo te?
J.: Una donna è, nel corpo e nello spirito, un contenitore di messaggi universali

G.: Come vedi collocata la donna nella società contemporanea?
J.: Credo ci sia un peso molto oneroso che la donna contemporanea deve sostenere: il peso di una eredità che ci arriva da tutte le conquiste fatte da donne coraggiosissime, in un passato lontano e recente. Difendere tutto ciò è la nostra grande responsabilità.  Ma vedo anche molte fragilità. Mi riferisco ad una esagerazione deprimente circa l’uso dell’immagine corporea. Il corpo femminile appare oggi svuotato anche da un sano erotismo. E poi… la violenza sulle donne, ancora così ignobilmente diffusa! Questa società è complicata, se da una parte si compie la battaglia per una emancipazione e per una parità di diritti, dall’altra bisogna stare attente a non pretendere “posizioni” a tutti i costi senza conquista vera da parte dalla donna, perché questo potrebbe paradossalmente fomentare la “differenza”. 

G.: Descrivimi liberamente te in quanto Donna:

J.: Sono una donna coerente quando si tratta di compiere scelte. Forte, severa ma anche fragile.  fragilità la sento emergere quando mi concentro sul percorso infinito che è la costruzione della propria identità. Sono una guerriera delle mie idee e dei miei pensieri. Molto più equilibrata di ciò che potrei sembrare, so di essere una donna dalle ampie vedute. Ho assecondato il mio desiderio di amare, di essere amata e di avere dei figli. E sono di una sincerità estrema nel rapporto che ho con questo mio corpo, una sincerità tale da domandarmi, talvolta, in che modo affronterò il decadimento della carne.

G.: Qual è il dovere di un’Artista-Donna nella società contemporanea?
J.: Innanzi tutto non parlerei di dovere. Al di là delle battaglie femministe in cui anche una moltitudine di artiste si è battuta per esprimere le proprie idee, penso che fare arte per una donna sia un diritto. Trovo soprattutto pericoloso circoscrivere la femminilità per renderla più forte. Si rischia di ghettizzarla. Io insisterei invece per un dialogo tra opere.

G.:Quando, come e per quale ragione (se c’è una ragione)  una donna come te diventa un’Artista:
J.: Penso che non ci sia una ragione, ho seguito la mia propensione sin da piccola.

G.: Cosa osservi del mondo, e cosa di ciò che osservi diventa materiale da plasmare con la tua creatività?
J.:  Del mondo osservo l’umanità, soprattutto indagando gli sguardi. Dunque il materiale di cui mi servo è prevalentemente umano. Mi capita, quando qualcuno parla, di concentrarmi quasi esclusivamente sui suoi occhi e sulla sua gestualità. Le parole, per me, vengono molto dopo. Il fascino di un portamento o di una espressione mi da la possibilità di creare e plasmare un racconto pittorico.

G.: Quale tecnica adoperi e quali sono le tematiche della tua ricerca artistica?
J.:  Dipingo ad acrilico ed olio su tela di cotone fine. E dipingo corpi. Il corpo è sempre stato centrale nelle mie opere. E negli anni mi sono concentrata su tematiche relative al ricordo, all’origine, alla ricerca della propria identità, alla scoperta di sè. Dipingere è per me un tentativo di riscrivere quella storia nascosta nel corpo, quella storia che abita ciascuno di noi. E per narrarla uso oggetti simbolici come nastri, garze, insetti. La mia pittura si serve della carne per andare oltre la carne. Le mie donne vivono immerse in una atmosfera liquida. E la dimensione temporale non è mai definibile.

G.: Vuoi narrarmi la genesi di un tuo lavoro?
J.:  Parto sempre da uno studio fotografico: ho già chiara nella mia mente un’idea quando preparo il set. Ecco, già da quel momento la mia opera prende a vivere. Faccio una selezione accurata delle fotografie, e una volta operata la scelta, procedo con la  trasposizione pittorica. Comincio  stendendo prima una imprimitura gocciolante con gesso e colla sulla tela. Poi studio le proporzioni del disegno, e con matite colorate vado a costruire le figure. Nella fase di abbozzo mi servo di tonalità verdastre per la resa dei volumi. In sostanza la mia pittura si risolve per velature:  le ultime due sono molto liquide e calde: prediligo infatti i toni degli ocra, dei rossi e delle terre, per concludere un mio lavoro.

G.: Quali artisti o correnti artistiche hanno in qualche modo contaminato e influenzato il tuo lavoro?
J.:  Da sempre subisco l’incanto dell’arte risalente al secondo Ottocento Francese, a partire dalla rottura con la tradizione e con l’accademismo, operata dagli Impressionisti a partire dal 1874.  Sono sinceramente innamorata di Degas, Renoir, Toma… ma anche di Simbolisti e Pre-Espressionisti come Redon, Munch, Schiele.

G.: Ad ispirarti ci sono anche letture particolari?

J.:  Certamente. E anche in questo caso parto dall’Ottocento, spostandomi però su una produzione letteraria meramente femminile: le sorelle Bronte e Jane Austen.  Leggo Marguerite Duras, Isabel Allende, Antonia Arslan. Amo Karen Blixen per il forte sentimento d’amore nei riguardi della natura dei popoli di culture differenti dalla nostra. Trovo molto interessante Melania Mazzucco e sono affascinata dalle autobiografie, in special modo ho letto diverse autrici che hanno scritto le loro storie di coraggio nei paesi islamici. Tra le poetesse invece, mi trasportano Emily Dickinson e Sylvia Plath. 

G.: L’opera d’arte più “femminile” della storia dell’arte?
J.:  Giuditta che decapita Oloferne (del 1612 circa) di Artemisia Gentileschi

G.: L’opera d’arte che ti fa dire : “questa avrei davvero voluto realizzarla io!”?
J.:  Poiché  avrei voluto fare anche scultura direi le opere di Michelangelo perla Tomba di Lorenzo De’ Medici, dove sono rappresentate le allegorie dell’Aurora, del Crepuscolo, della  Notte e del Giorno.

G.: Scegli 3 delle tue opere per parlarmi della tua ricerca:
J.:  “Intro ventre” del 2010:

Jara Marzulli – Intro Ventre – 120×100. 2010

In quest’opera vi sono concentrati aspetti differenti, come la trasformazione corporea della donna nella gravidanza ed il travaglio più che altro mentale. E qui il legame si fa sadica curiosità: la curiosità di una figlia e sorella del futuro nascituro, che apre l’interrogativo eterno della vita.

 

“Diana” del 2012:

Diana rappresenta la sicurezza di una donna: è una figura mitologica dal seno saturo di latte. La sua natura quasi bestiale incontra, in quest’opera, la capacità di mettere in discussione se stessa. Emblematico di tale prontezza è  il taglio della treccia: un gesto che la rimette in contatto con la “bambina” che è sempre dietro ai suoi occhi.

 

“La bambina e le api” 2012:

Jara Marzulli – La bambina e le Api – olio e matita su tela, 120×80. 2012

In questo dipinto, invece, una creatura lascia uscire da sé immagini ancestrali di insetti simbolici. Il nettare della vita scorre dai fiori tenuti stretti fra le mani. Si ripete il motivo del taglio della treccia: le trecce tagliate e calpestate simboleggiano il distacco da una storia vissuta. Rappresentano una sorta di alleggerimento dell’anima, ora pronta a viverne di nuove.

 

G.: Work in progress e progetti per il futuro:

J.:  Sto lavorando alla mia prossima esposizione personale,  prevista per il prossimo Maggio 2013 negli spazi della E-Lite Studio Gallery di Lecce. La mostra  raccoglierà tutti i lavori del 2012 più diversi inediti, e sarà curata da Roberto Lacarbonara.

Per approfondire, il sito di Jara Marzulli.

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L’amore in webcam. Una mostra di Donatella D’angelo

di Valeria Vaccari

Il 14 febbraio Donatella D’Angelo ha presentato a Milano, presso lo spazio Winters Hair Concept di via Lecco 2, un progetto fotografico che farà discutere per il tema scottante: l’amore in webcam. Intitolata La carne chiede coraggio in cambio di fede, la mostra è curata da Q Connection e sarà aperta fino al 16 marzo. Da molti anni D’Angelo lavora sul tema del nudo, attraverso la pittura, il collage e l’elaborazione digitale. Donne sirene, donne angelo, particolari del corpo prendono vita attraverso il bianco e nero o il colore. Con una buona dose di ironia e autoironia.

Negli ultimi dieci anni, in Italia abbiamo assistito al diffondersi delle video chat, dei siti pornografici gratuiti e a pagamento che promettono attraverso il filtro dello schermo l’accesso a contenuti allettanti e provocatori. La velocità di veicolazione delle immagini attraverso internet ha cambiato completamente le leggi del desiderio, le regole dell’attesa e la soddisfazione sessuale, anche all’interno della coppia. Chiunque può postare un video erotico amatoriale, condividerlo sui social network, spedirlo via mail alla persona amata.

E se qualcuno di noi trovasse il suo compagno o la sua compagna, in una chat erotica? Cosa spinge queste ragazze a spogliarsi davanti ad una webcam, nell’intimità della loro casa, di fronte ad un pubblico pagante? Cosa le induce a travestirsi, a mostrarsi in mezzo ai peluche, a ostentare tatuaggi o impugnare giocattoli erotici? Esibizionismo, bisogno di soldi, costrizione? Potere o impotenza?

Donatella D’Angelo fotografa lo schermo dal quale le ragazze ammiccano al cliente, chattano interagendo con lui, in una pantomima irreale e fasulla. Ma chi sono i frequentatori di queste chat? Da dietro una scrivania, dopo l’orario di lavoro gli uomini accedono a questo universo parallelo, celandosi con un nickname e condividendo questa escalation erotica. Sono professionisti, studenti, pensionati, single di lungo corso, o semplici curiosi (informazioni da Psicolinea). Donatella documenta la quotidianità di certi gesti, il sottile menefreghismo di queste ragazze che mentre si spogliano cucinano, ascoltano la musica, fumano una sigaretta come se fossero completamente estraniate da quello che stanno facendo.

Nelle interviste, le webcam girls dichiarano di vendere la propria immagine, un’immagine esposta e fasulla. Come una sorta di schizofrenia, di sdoppiamento. Sono certe che questo lavoro non abbia cambiato la loro percezione del sé, è un modo semplice e quasi indolore di guadagnare soldi. Tuttavia viene da chiedersi se sia moralmente lecito vendere il proprio corpo online, se il mercato della pornografia non si sia impadronito di certe pulsioni umane per trarne profitto. Viene altresì da domandarsi quanta solitudine ci sia dietro coloro che le frequentano, se non rischi di diventare un’ossessione compulsiva che li estranei completamente dal mondo fatto di donne in carne ed ossa. Oppure è solamente un gioco di ruolo, nel quale non è chiaro chi sia la vittima e chi il carnefice?

L’artista non esprime giudizi, vuole documentare una realtà. Fotografa l’atteggiamento, la comunicazione non verbale, la dimensione estetica. L’immagine viva porta a riflettere, a porsi delle domande, più che a scandalizzarsi. E attenzione perché dietro ad ogni spettatrice o spettatore della mostra, può esserci una webcam…

Donatella D’Angelo, nata a Milano, è docente di Packaging Design alla Fondazione Accademia di Comunicazione a Milano. Arrivata all’arte passando dalle lingue, negli anni ’80 ha lavorato per diversi studi grafici. Più di recente ha iniziato numerose collaborazioni freelance nelle arti visive, nella scrittura e nella comunicazione. Ha illustrato libri e manuali, organizzato laboratori creativi per bambini delle scuole elementari, ragazzi delle medie e adulti. Negli ultimi anni ha intrapreso un lavoro di ricerca fotografica personale e autobiografica che ha come soggetto principale il corpo e l’identità.

 

Foto: Donatella D’angelo.

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Sono piccoli problemi di cuore / BLOG UNA STANZA TUTTA PER SÉ

di Gaia Nina Marano

Il fatto è che in fondo siamo come animali. Ci possiamo abituare a tutto. Il freddo, la fame, il sonno, la paura, la gioia… Sono tutte sensazioni che vanno e vengono, turbano le nostre membra, senza però trapassare il cuore. Eppure c’è qualcosa da cui il nostro istinto animalesco non potrà mai proteggerci… E noi continueremo sempre a cascarci, con tutte le scarpe.

Come il cappotto che lunedì Valentina indossava mentre aspettava il tram sotto la pioggia. Abbandonato di fretta sullo stendi panni dell’ingresso, pesante e impregnato di acqua gelida, continuava a gocciolare sul pavimento. A quel cappotto non importava davvero di essere tornato a casa, sano e salvo dal diluvio universale. Lui continuava a piangere dalle sue maniche infeltrite, compiacendosi della immensa pozza di tristezza che lentamente si stava spargendo a terra.

“Mannaggia… Guarda che disastro, mi tocca asciugare tutto adesso”. Valentina mette un panno bianco sotto lo stendino. Accende il computer e una sigaretta. Apre l’email e scrive: “Mi sembra di essere ritornata al liceo. In quell’epoca delle cose non dette, delle emozioni intrappolate dentro, delle paure e del silenzio… Solo che durante l’adolescenza il tutto era condito anche da una discreta dose di incoscienza, che permetteva di vivere la giornata senza paura, di alzarsi con il sorriso anche se la notte ci si era addormentati tristi. Perché quello che succedeva il giorno prima si dimenticava quello dopo. Adesso invece ho le stesse sensazioni e il triplo della paura. Ma una paura tale da rimanere inchiodata alla sedia, senza poter reagire. Sto seguendo questo corso d’arte, lo sai. L’ho sempre voluto fare. E nonostante la fatica mi sta piacendo tantissimo. Ho iniziato così, senza farmi domande, concentrata solo su me stessa, senza guardarmi attorno, perché l’unico soggetto che volevo mettere a fuoco ero io. Poi piano piano mi sono sciolta, ho incontrato nuove persone e mi sono anche fatta degli amici. In particolare un amico… La verità è che tutto è iniziato come una amicizia, e ancora adesso per lui è così. Ci incontriamo la mattina, scambiamo due chiacchere, ridiamo e scherziamo. Poi ognuno si siede al proprio posto. Non ci vediamo più se non a fine giornata, quando i corsi finiscono e si fa ora di tornare a casa… E io non vedo l’ora di scappare su quel tram con lui. Sì, mi piace, mi piace tantissimo. Mi piace il suo sorriso, i suoi occhi, mi piace quello che dice, la sua voce, mi piace la sua pelle, quel giacchetto blu che indossa. Che dire, mi piace. Non lo avevo capito prima di oggi. Poi mentre tornavo a casa mi è venuto da piangere, perché sapevo che domani non avremmo avuto lezione e quindi non lo avrei visto. Mi è mancata l’aria, ho iniziato a sudare. Avrei voluto trovare un suo messaggio sul telefono, ma non c’era. Perché io per lui non sono nulla, se non una compagna di corso. Niente di più. Mentre per me le cose sono cambiate… Come sia successo io non lo so. Te lo avrei voluto dire prima, ma non sapevo come. Di fatto non c’è niente di cui parlare, è tutto una fantasia. Ma quando l’altra notte ho sognato che mi prendeva fra le sue braccia e mi baciava… Lì ho capito che forse qualcosa c’era, anche se solo da parte mia.”

Suona il telefono. Valentina allunga il braccio e risponde tenendo la sigaretta stretta fra le labbra.

“Mamma sei tu… Ninte, non facevo niente, stavo solo buttando delle cose vecchie!”

Clicca con il mouse sulla pagina, incespica con la freccia e poi preme “delete”.

“Eccomi, sono tutta tua. Allora, come va?”

Nel frattempo apre il suo quaderno e scrive con la penna rossa in maiuscolo: SCRIVERE A MARCO.

 

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Ha senso parlare di letterartura lesbica? Intervista a Sarah Sajetti

Lo scorso ottobre è uscito per Robin Edizioni Storie di streghe e di delitti, secondo romanzo di Sarah Sajetti, scrittrice, attivista per i diritti degli omosessuali, redattrice e poi direttrice editoriale della rivista lgbtq Babilonia, caporedattrice di Reallife e ora direttrice della collana QL2 di Robin. Seguito di Volevo solo un biglietto del tram (2008), questo giallo racconta una nuova avventura di Chiara, giovane donna omosessuale, trasferitasi da Milano per vivere con la compagna Alessandra nel Monferrato, dove si ritrova coinvolta nella vita della piccola comunità rurale che la ospita e in una serie di delitti.

Cogliamo l’occasione per fare a Sarah Sajetti qualche domanda sulla realtà di cui parla il suo romanzo e, più in generale, sulla narrativa che racconta donne e relazioni lesbiche.

Rispetto alla loro relazione, la protagonista e la sua fidanzata si comportano in modo diverso: Chiara si sente libera e sicura, Alessandra la nasconde. Perché? Chissà! Ho descritto una situazione che si verifica spesso, ma per la quale purtroppo non ho spiegazioni. L’omofobia interiorizzata è uno dei problemi più grandi che gli omosessuali debbano affrontare, quello che fa sì che si auto-boicottino sempre e comunque. E molti di loro neppure se ne accorgono!

A un certo punto della storia Alessandra dice a Chiara: “hai sempre propugnato la necessità di uscire allo scoperto per modificare la mentalità delle persone che ci stanno accanto”. Si può considerare, questa, la ragione, o una delle ragioni, per cui Sarah Sajetti scrive? No, non è la ragione per cui scrivo, ma sicuramente è il motivo per cui le mie protagoniste sono omosessuali. Credo che la visibilità sia lo strumento più efficace che gli omosessuali hanno per cambiare gli stereotipi e abbattere i pregiudizi e l’ostilità degli altri: non solo quella dei personaggi pubblici, che secondo me hanno il dovere di uscire allo scoperto per offrire dei modelli positivi, ma anche quella delle persone normali, che ne parlano a parenti, amici, colleghi, compagni di studi e di sport.

Essere una coppia lesbica in una grande città o in una comunità rurale sono due cose diverse? Se non sei dichiarato e non hai intenzione di rendere pubblica la tua omosessualità sì, è molto diverso, perché la città garantisce un maggiore anonimato, altrimenti è uguale. Nella mia esperienza, infatti, anche nelle zone meno urbanizzate quello che interessa davvero alle persone sono le tue qualità umane, a patto che l’omosessualità non sia tenuta segreta, non sia qualcosa di cui si sia i primi a vergognarsi: ho conosciuto omosessuali nati e cresciuti in posti microscopici perfettamente integrati nella comunità.

La scelta di Alessandra di nascondere un aspetto della propria identità genera conflitti nella coppia. In base alla tua esperienza, è un fatto che si verifica spesso oggi in Italia? Capita ancora, sì, e devono farci i conti anche i maschi omosessuali. Vivere una relazione segreta può essere anche eccitante nelle prime fasi di un rapporto, ma alla lunga diventa un limite alla costruzione di un percorso comune. Conosco persone che in occasione dell’annuale visita della madre di uno dei due partner smobilitano casa nascondendo ogni traccia di cultura queer, altre che non passano mai le feste assieme o per le quali camminare per mano per strada è un lusso inconcepibile. Come fanno due persone a far crescere una relazione in queste condizioni?

Ci sono state reazioni da parte dei lettori dovute all’identità sessuale della protagonista e di altri personaggi dei tuoi romanzi? Non ho mai ricevuto critiche per la scelta di parlare di personaggi omosessuali, ma temo che, fatta eccezione per i miei amici, non siano moltissimi gli eterosessuali che li leggono! C’è ancora questo pregiudizio: se parli di omosessuali scrivi per gli omosessuali.

In un’intervista a proposito del suo libro Orgoglio e privilegio. Viaggio eroico nella letteratura lesbica (Il dito e la Luna, 2003), Margherita Giacobino afferma: “La letteratura lesbica è per me una categoria di comodo, uso questa espressione per indicare tutti i libri in cui entra in gioco il punto di vista lesbico, in modo più o meno dichiarato. Tutti quelli in cui una lesbica non si sente negata dalla presunzione che l’eterosessualità sia unica e universale. Come tale, è una categoria letteraria trasversale, per usare una parola di moda: comprende libri noti e non, di ogni e qualsiasi genere letterario, di letteratura alta, bassa o di media statura, belli e brutti, tragici o a lieto fine, ecc… “. Secondo te, ha senso parlare di narrativa lesbica o omosessuale? Sono d’accordo con Margherita Giacobino, do alla locuzione “letteratura lesbica” esattamente la stessa valenza e infatti con il mio editore, Robin Edizioni, abbiamo lanciato una collana digitale di letteratura lesbica, QL2, che pubblica libri appartenenti a qualsiasi genere letterario purché entri in gioco il punto di vista lesbico. E anche sul valore di questa letteratura concordo con Giacobino: superare la visione unica dell’eterosessismo. Inoltre credo che le lesbiche abbiano il diritto, come tutti gli altri, di riconoscersi nei personaggi e nelle storie, di immedesimarsi, di partecipare di un immaginario che le riguardi in maniera specifica.

Puoi citare alcuni libri che ritieni particolarmente significativi da questo punto di vista? Sarò presuntuosa e citerò per primo il mio primo romanzo, Volevo solo un biglietto del tram, che è piaciuto proprio perché le lettrici si sono riconosciute nelle situazioni descritte. Da Milano a Bologna, a Roma, a Firenze le disavventure di Chiara sono state riconosciute come proprie dalle donne che l’hanno letto e questo non può accadere leggendo libri eterosessuali che raccontano dinamiche e inneschi psicologici completamente diversi. Ovviamente ce ne sono altri, come gli stessi libri di Margherita Giacobino, quelli di Sandra Scopettone o di Lola Van Guardia.

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Yoko Ono. Da bambina dell’oceano a donna Fluxus / Blog Woman’s Art

di Giovanna Lacedra

“Sbucciami.  Spogliami.  Sfogliami di dosso questo strato di paure. Rendimi libera. Rendimi nuda, di fronte al mondo e di fronte a me stessa. Voglio espormi, come una ferita senza garze. Voglio espormi, come un’opera fuori dalla sua teca protettiva. Voglio rischiare la vita per mano tua.”

Cut Piece performance – 1964/66

Sono queste le parole che immagino di sentire ogniqualvolta guardo il video di “Cut Piece”, la memorabile performance di Yoko Ono. Potrei anche sbagliarmi. Ma se così fosse, errerei di poco.

Sono quasi certa che se questa fosse una serata di marzo del 1965, ed io mi trovassi lì, al Carneige Recital Hall di New York, con una forbice in mano, ad un passo da lei e dalla sua veste già in parte sfrangiata, leggerei queste parole nel suo sguardo vitreo ed impassibile. “Sbucciami… Spogliami…  Sfogliami…” . Taglierei un brandello di stoffa.  Le scoprirei un seno. Poi l’altro. Poi parte dello sterno. Cautamente. E so che lei resterebbe così, con lo sguardo fisso altrove, a braccia conserte e gambe incrociate. Felice di essere scoperta e di sapersi indifesa.

Cut Piece. Un atto performativo audace e catartico.

Lei è lì, senza orpelli e senza voce. Indossa null’altro che un lungo abito scuro. E da quell’abito, chiede di essere liberata. Piano. Brandello dopo brandello.

Sono gli spettatori a fare tutto. Viene data loro una forbice:  l’arma che la libererà dalla sua buccia.

Sforbiciata dopo sforbiciata, l’anima si alleggerisce. Quasi come a perdere corpo. Quasi come a ritrovare un’identità. Gli strati di menzogne che l’avevano dissimulata cadono, come lembi di un inutile vestito.

Lei è lì, quella sera di marzo del 1965, imperscrutabile come lo è stata durante la sua prima esibizione in Giappone, prima a Kyoto e poi a Tokio.

Appena vent’anni dopo l’esplosione della bomba atomica, la bambina che insieme alla sua famiglia ha vissuto gli orrori della guerra  è ora una donna certa del proprio diritto alla libertà e decisa a sfidare le ombre della paura. In silenzio, va a sedersi al centro del palco, incrocia le gambe in posizione meditativa e lascia che il primo spettatore le si avvicini. Gli porge la forbice e lo invita a tagliarle via l’abito-corazza.

Dopo il primo arriva il secondo, e poi il terzo e poi il quarto… e poi l’ennesimo.

Cut Piece performance – frames

I primi spettatori sono timorosi, sferrano timide sforbiciate. Ma con i successivi il ritmo della forbice si fa sempre più veloce. Anche chi taglia perde la paura, e partecipa emotivamente all’azione.

Come scrive lo storico dell’arte Edward Lucie-Smith, “l’artista non crea qualcosa di separato e chiuso, ma piuttosto fa qualcosa per rendere lo spettatore più aperto, più consapevole di se stesso e del suo ambiente”. E chi taglia diventa consapevole del valore di quell’atto. Sa che sta privando l’artista del suo involucro protettivo.

Mentre perde la corazza, Yoko Ono non dà alcun segno di turbamento. Resta ferma, immobile, apparentemente distaccata. L’abito si sfoglia, di sforbiciata in sforbiciata. La sua pelle affiora, come un fiore lunare. E il suo sguardo non tradisce sommosse emozionali.

È ostinata. Sì. Lei non è semplicemente una donna. Lei è la donna. Quella che sa vincere sulle proprie paure. Quella libera da ogni  tabù. Quella postmoderna. Che si appartiene e dunque si dona.

Come  dichiarò in un’intervista per un magazine londinese:

“Mentre lo facevo, guardavo fisso nel vuoto, mi sentivo un po’ come se stessi pregando. Io sacrificavo volentieri me stessa”

‘Cut Piece’ è stato un atto performativo di grande intensità; una sorta di inno all’autenticità. Il risultato, in chiave artistica, di un percorso intimo e spirituale.

Foto di famiglia

Figlia maggiore di un ricco banchiere giapponese e di una pianista che aveva sacrificato  la propria creatività  per lavorare in banca, Yoko Ono ha dovuto tagliarsi di dosso la camicia di forza di una educazione rigida e anaffettiva.

Il suo nome significa “bambina dell’oceano”, e la sua personalità fluida e ribelle ne è stata un fedelissimo  riflesso.

Nata Tokyo nel 1933 e trasferitasi negli Stati Uniti, è ricordata soprattutto come compagna del grande Jonh Lennon. Eppure non tutti sanno che fu una delle prime sperimentatrici di happening, e che aderì sin da subito al movimento Fluxus, fondato dal lituano-americano George Maciunas con l’ambizione di miscelare arti visive, poesia, musica sperimentale e  teatro, creando fluide contaminazioni.

Per Yoko Ono scegliere di seguire la propria vocazione non fu facile.

I suoi genitori desideravano che frequentasse ricche e facoltose famiglie statunitensi. E lei, per tutta risposta, disubbidì. Prese ad incontrare artisti, poeti,  bohemienne e anticonformisti di ogni sorta. Si battè per i diritti umani. La ragazzina giapponese dalle buone maniere, scampata allo schock dei bombardamenti, divenne insofferente alle regole. E decise, infine,  di sfidare la rigida e algida educazione famigliare.

Quella frustrante rinuncia materna alla creatività divenne per lei un saldo  antimodello.

Già sul finire degli anni Cinquanta  iniziò  a comporre quello che lei stessa definì  “un manuale di istruzioni per l’arte  e per la vita”: Grapefruit.

Il pensiero liquido, in linea con la storica poetica fluttuante giapponese,  qui diventa  immagine nella parola. Ogni pensiero è figlio di una data, di una stagione, di un attimo fugace, eternato dall’inchiostro.  Dona forma all’energia immaginifica.

Secondo Yoko Ono l’immaginazione è il vero potere dell’essere umano. Può tutto. Può persino fornire strumenti per migliorare la realtà. Lo stesso Lennon confessò di aver preso spunto da alcuni di questi versi per scrivere quella che è divenuta la sua canzone più celebre: Imagine.

Grapefruit è una raccolta di versi asciutti, memori della tradizione haiku. Apparentemente fondati sul paradosso e sul nonsense. E  invece magici ed intensi. Liberi, esattamente come un flusso. E profondissimi, quasi come l’oceano.

Frammenti poetici visualizzabili.  Versi visivi, che potrebbero essere azioni. Ogni frammento, il concept di una Fluxus performance. Leggendoli si è quasi in quel luogo senza confini in cui tutto accade. Un luogo fluttuante che i più chiamano “fantasia”.

 

Frammento Pulsante:

“Ascoltatevi le pulsazioni l’un l’altro

mettendo l’orecchio uno sullo stomaco

dell’altro.”

(1963 Inverno)

 

Frammento dell’acqua:

“Ascolta il suono dell’acqua

sotterranea.”

(1963 primavera)

 

Frammento lineare III

“Disegna una linea con te stesso.

Continua a disegnare finchè non scompari. ”

(1964 Primavera)

 

Frammento di vento:

“Taglia un dipinto a pezzi  e lascia che si perdano nel vento”

(1962 estate)

 

Frammento dell’Ombra:

“Metti insieme le tue ombre

finchè diventano una sola”

(1963)

Frammenti fluidi,  che sfidano la plausibilità del reale. Fluxus-Haiku.

Parole alchemiche, che hanno permesso alla  bambina dell’oceano di  ascoltare la sua anima fluttuante.

 

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