E se il finale delle fiabe fosse una bugia?
Se venisse in qualche modo interrotto e rovesciato da un singhiozzo della storia, capace di trasformarne le protagoniste in disobbedienti eroine in fuga o in creature selvagge, colte in preda alla propria animalità?
Cosa accadrebbe a noi lettori e spettatori, se scoprissimo che Cappuccetto Rosso in verità non è quella bambina altruista e amorevole che attraversa il bosco per andare ad accudire la nonna, bensì è un licantropo? Cosa proveremmo, se scoprissimo che ad un certo punto della fiaba proprio laggiù, nel Paese delle Meraviglie, il Bianconiglio ha ridotto in brandelli la piccola Alice?
Anna Caruso – Constatazione amichevole
Verremmo spiazzati, senza ombra di dubbio. Perché esser certi di sapere come stanno le cose, rincuora. Ed il lieto fine è una certezza assai rassicurante. Eppure Carroll e i Fratelli Grimm potrebbero essersi sbagliati… o potrebbero averci raccontato una splendida bugia.
È possibile che Cappuccetto Rosso, invece di smarrirsi nel bosco, sia scappata di casa. O può essere che abbia semplicemente sbagliato strada, e si sia ritrovata a vagare per le strade chiassose di una grande città, accecata dai fari delle auto e dai neon di insegne luminose che non riesce a decodificare.
Anna Caruso – In bocca al Lupo
Può darsi che Biancaneve, invece di riposarsi nella casetta dei sette nani, si sia nascosta nell’immenso spazio oscuro di una fabbrica dismessa, ad osservare una mela per niente commestibile ma altamente tecnologica, nella speranza di ottenere qualche risposta sulla propria sorte.
Anna Caruso – The must be the apple
Allo stesso modo, è possibile che il lupo si sia stufato di appostarsi nel bosco, e mascherandosi da Cappuccetto Rosso, abbia pensato bene di andare a farsi un giro nel centro di Tokio.
Dal cuore di una fiaba al disordine della realtà, il passo è breve, soprattutto se a tracciarlo – di pennellata in pennellata e di velatura in velatura – è la mano talentuosa di una giovane pittrice.
Onirismi si sbucciano tra gli spigoli della contemporaneità: sono le fiabe esplose di Anna Caruso.
Alice, il Bianconiglio, Cappuccetto Rosso, Biancaneve: solitudini smarrite nell’irrealtà di un mondo che ha perso la capacità di ‘sentire’. E se l’arte è soprattutto visione, come affermava Jean Dubuffet, le visioni metropolitane di Anna Caruso si animano di personaggi simbolici, per indagare i vuoti del nostro tempo.
Nelle opere della Caruso la trama della fiaba viene interrotta, e la sua eroina viene strappata dal contesto narrativo per essere letteralmente teletrasportata in una dimensione che non le appartiene. È quel singhiozzo della storia, che come un sussulto sismico la spiazza, la infrange, e la disorienta.
Con pennellate di colore acrilico accostate e giustapposte su tele preferibilmente serigrafiche, Anna dà vita ad un mondo dentro al mondo. Adottando una tecnica dinamica costruisce, con grande rapidità, architetture e anatomie, sovente colte in prospettive grandangolari. La dimensione fiabesca è evocata proprio da queste pennellate trasparenti che sovrappongono ad architetture urbane i rami stilizzati degli alberi di un bosco.
Per la sua più recente produzione Anna Caruso ha inoltre attinto dal cospicuo serbatoio dell’iconografia classica e religiosa.
Anna Caruso – La Profana Famiglia
Nella “Profana Famiglia” ad esempio, la madre – che non è una Madonna quanto piuttosto un Cappuccetto Rosso in età adulta – compie un gesto alquanto dissacrante, un gesto che cancella il rimando iconografico ad una essenza ultraterrena, ponendo invece in rilievo l’aspetto animale, istintuale e bestiale. Stringe il bambino accostando il viso alla sua schiena, esattamente come usano fare gli animali, e lo fa proprio mentre il piccolo sta vivendo la sua metamorfosi.
I personaggi appaiono quasi come allucinazioni o visioni sdoppiate, frammentate, sfuocate. E lo sfondo sul quale si stratificano, quasi fossero apparizioni o allucinazioni, è ancora un bosco nebbioso e desolato.
L’ultima operazione dell’artista è stata quella di valicare i confini della tela, per entrare – pennello alla mano e cappuccio rosso in testa – in un suggestivo cortometraggio firmato dal fotografo leccese Antonio Lootek Fatano.
C’ero una volta
Se desiderate approfondire, ecco il sito ufficiale: www.annacaruso.it.
[di Giovanna Lacedra]
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novembre 19, 2012 • 17:39 0
Frances contro le major / blog Watching a movie
di Valentina Zoccolo
“Frances Farmer will have her revenge on Seattle”, così cantava Kurt Cobain nell’album del 1993 In Utero.
Frances Farmer è stata un’attrice di Hollywood dalla vita, la carriera e la personalità travagliate e anticonformiste. La sua esistenza, oltre ad aver ispirato la canzone dei Nirvana, è finita in un bel film del 1982 diretto da Graeme Clifford e interpretato da una ispirata e bravissima Jessica Lange: Frances (qui il trailer).
Frances Farmer nacque a Seattle nel 1913, e già da ragazzina mostrò di avere molto carattere e un’intelligenza raffinata e pungente che le fecero vincere un premio letterario con un saggio su Dio e la religione, grazie al quale poté visitare l’Unione Sovietica nonostante la ferma opposizione della madre. Una volta rientrata in America, iniziò la sua carriera di attrice, dividendosi tra il teatro e le grandi produzioni hollywoodiane, che videro in lei una nuova stella da lanciare nel loro glorioso firmamento.
Nonostante la sua indubbia bravura, però, la Farmer si conquistò ben presto la fama di attrice scomoda per via della sua forte personalità e per la determinazione a non farsi stritolare dai meccanismi di un sistema che le avrebbe dato fama e successo a patto di diventare una specie di burattino nelle mani di registi e produttori, che avrebbero preso al suo posto ogni tipo di decisione per adeguarla a quello stile di vita che la mecca del cinema voleva dalle sue stelle.
Troppo per una donna assolutamente libera da ogni vincolo e ben decisa a mantenere intatta la propria dignità. La Farmer pagò a caro prezzo la sua indipendenza, la sua vita sregolata – ebbe la sua dose di problemi con droghe e alcol – e il buon uso che faceva della sua intelligenza, che la rendeva una donna colta e pensante, e per questo pericolosa.
Venne tacciata di essere filocomunista, ebbe più volte problemi con la giustizia e finì per cinque anni in manicomio, dal quale uscì stremata per gli elettroshock e una mai confermata lobotomia.
Il film ha il merito di mantenere intatta la memoria di una grande donna che ha scelto di rimanere se stessa senza scendere a compromessi, nonostante le gravi conseguenze che dovette affrontare. Oggi come allora, parliamo della seconda metà degli anni ’30, la donna che pensa, sceglie la sua strada e la percorre a testa alta rischia di essere additata e screditata, sminuita e cancellata, per poi essere dimenticata e prontamente rimpiazzata da chi invece accetta di rimanere nel giusto binario, senza creare problemi.
Forse non era vendetta quella che cercava, ma di sicuro almeno una rivincita l’ha avuta sulla sua città, e non solo, che l’ha prima amata e poi allontanata. Perché cinema e musica oggi la celebrano come esempio di donna emancipata e coraggiosa, che non si è piegata e non si è spezzata.
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