WOMAN's JOURNAL

Perché anche Kate Middleton ha i capelli bianchi (e non c’è da preoccuparsi)

Chi non ha i capelli bianchi a trent’anni? Difficile scampare. Le nostre madri potevano permettersi di cominciare a quaranta o cinquant’anni a tingersi i capelli, a molte di noi, tocca molto prima. Ma non è una scelta obbligata, una condanna. Se non si vuole che diventi tale basta fare la scelta di non tingersi. E ci sono buone ragioni, la prima, forse la più importante, che una volta iniziato sarà difficile smettere, perché si vedrà la ricrescita e toccherà continuare a tingersi all’infinito, con grande spreco di tempo (che oggi è più che mai ridotto e già dedicato a cerette e trucco quasi quotidiani) oltre che di soldi. Ultima ad essere apparsa con qualche ciocca bianca in pubblico è la duchessa di Cambridge Kate Middleton come ha mostrato il Daily Mail.

Se alcuni giornali italiani hanno riportato la notizia concentrandosi sul fatto che “omiodiohaicapellibianchi” e deve quindi correre in fretta ai ripari perché è “antiestetico” (Il Giornale e Lettera43 che oggi su Facebook linkava a questo post), il Daily Mail (che oltretutto non si vergogna di essere un giornale frivolo) ci spiega le ragioni del perché ciò accada: stress, vivere in città inquinate e fare vacanze in luoghi soleggiati. Infatti alcuni studi hanno dimostrato che i raggi ultravioletti e l’inquinamento sono associati alla produzione di radicali liberi, che secondo alcuni distruggono la melanina, responsabile della colorazione dei capelli. Poi c’è la genetica che fa la sua parte e una grossa componente sembra giocarla lo stress e il ruolo della vitamina B.

Sicuramente più interessante che ricordarci che al primo capello bianco, urge andare a comprare una tinta anche fai da te, purché copra.

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La bellezza è un handicap

Prossima settimana su Rai 1 inizia la fiction su Oriana Fallaci. Ho più di un dubbio sulla scelta della Puccini. Oriana era tutto fuorché sexy e aggraziata, Puccini è troppo bella per ricoprire quel ruolo. La bravura della Fallaci giornalista e inviata rischia di passare in secondo piano ed è quello che andrebbe proprio evitato. La Fallaci è una dei pochi esempi di giornaliste che hanno lavorato raggiungendo altissimi livelli. Lei era brava, stop. Combattiva, stop. Per niente aggraziata, stop. Non flirtava con i potenti, era cattiva e scomoda e la cosa le piaceva, semplicemente era fatta così. Non si è fatta piegare dalle convenzinoni e da un mondo infinitamente più maschile e maschilista di oggi. Non deve essere stato facile.

E allora perché passare sopra tutta la sua storia scegliendo una protagonista che la impersona bellissima? Forse perché la fiction si basa sul libro Un uomo (di cui sono stati comprati i diritti ) dove si racconta una delle più importanti relazioni della Fallaci. Il giornalismo quindi in questa storia diventa più una scusa.

La bellezza è un handicap quando si fa un lavoro intellettuale, deconcentra l’interlocutore, può confondere. È un handicap che talvolta sembra un vantaggio ma rimare un handicap. In tv ormai abbiamo solo giornaliste belle. Sono prese per la loro bellezza e non bravura, devono far vedere le gambe per attirare l’attenzione, le loro idee di riflesso, sono spesso scialbe. Mentre, siamo pieni di giornalisti televisivi uomini brutti. Per le donne c’è uno standard più alto, e crudele. Anche alla Fallaci è stato applicato post mortem questo standard trasmettendo un messaggio così svilente e banale a tutte le ragazzine che la tv la guardano con occhi e sicurezze e consapevolezze che non sono quelli dei grandi.

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“L’ASPIRANTE” una performance di Giovanna Lacedra. In novembre, a Cesena.

 

“Io sono legata a te indipendentemente dalla mia volontà, anche se

quando ho promesso a me stessa di vivere per te non sapevo

 che sarei stata ferita, ferita, ferita per l’eternità…”

 

[Sylvia Plath – DIARI – 6 marzo 1956]

 

La violenza.

Nascosta come un cuore nero in una nuvola d’ovatta.
Un cuore nero pulsante
in una noce di bianca perfezione.
L’Amore.

Quando è un inganno tradisce il sogno.

Lo lacera piano. E poi lo strappa.

Prima a colpi di silenzio. Poi di parole, affilate e taglienti.

Infine, arrivano le mani.

Ma cosa accade se quella noce di porcellana all’improvviso cade,
frantumandosi al suolo?

Silence…
Nessuno deve sapere.
Si tace nella gioia.
Si tace nel dolore.
Si tace il dolore
di non aver mai vissuto.

 

Alle privatissime pagine dei suoi diari, Sylvia Plath – poetessa americana del filone Confessional – confidava il timore di cadere nella trappola di una unione matrimoniale che, attraverso l’adempimento passivo ad un ruolo servile, avrebbe potuto costarle il caro prezzo delle proprie velleità, della propria identità e della propria dignità.

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Game in progress: Uno show flash sulla violenza di genere. A Milano / blog Woman’s Art

AMY D Arte Spazio  presenta GAME in progress 
12 sept_14 sept 2013,  opening 12 settembre ore 18.30

Lenuta Lazar, Antonella Riotino, Antonia Azzolini, Edyte Kozakiewiez, Fabiola Speranza, Grazyna Tarkauska, Lvath Eward, Nike Adekumie, Brunella Cock, Gabriella Falzini, immigrata di colore, 25 anni (08/02/2012). Le cronache non riportano neppure il nome. La lista dei femminicidi, vera sclerosi culturale, è lunghissima suddivisa non equamente tra i vari Stati.

La violenza avrà mai fine? 

È con questo interrogativo che è nato GAME in progress, specializzazione (i programmatori di videogiochi lo chiamerebbero sviluppo) del progetto THE GAME business and manipulation inaugurato il 26 giugno scorso.
Questo show flash, a seconda dei vari artisti, diventa opera poetica con la performance di Giò Lacedra – L’Aspirante – omaggio a Sylvia Plath e la partecipazione straordinaria di Roberto Milanio progetto, come “SE tu Fossi Me” di Maria Sara Cetraro e Serena Giardino, finalista nell’ambito del contest nazionale “No Violenza Donne” indetto dall’AIED in collaborazione con Cocoon Projects, che consiste nel tradurre in azione quello che Luigi Pirandello definiva sentimento del contrario, riflessione più profonda che scaturisce dall’immedesimazione nell’Altro/a.

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Per voce creativa: Giovanna Lacedra intervista Paola Mineo /Blog Woman’s art

“PER VOCE CREATIVA” è un ciclo di interviste riservate – e dedicate – alle donne del panorama artistico italiano contemporaneo. Per questa settima intervista, Giovanna Lacedra incontra Paola Mineo (Legnano, 1978).

Il tatto è tutto. È scoperta e contatto.

Toccare è portare a memoria la traccia dell’altro. È coglierne la forma, solcandone i vuoti. Toccare è sentire. È sondare. È indagare. È  perlustrare, nel silenzio, l’imperfetto divenire.

Toccare è esercizio della creazione, per Paola Mineo, che al Politecnico di Milano studia per diventare architetto, ma che presto comprende quali siano in verità le forme che maggiormente la seducono: quelle del corpo umano. È l’uomo che le interessa, non ciò che questo costruisce. È pelle che vuole, non cemento.

L’esperienza svolta presso il Politecnico di Atene, durante la preparazione della sua tesi, la rende ineluttabilmente consapevole di ciò. Catturata dal plasticismo della statuaria classica e dai giochi volumetrici e chiaroscurali delle anatomie,  scopre la sua innata attitudine per la scultura. Ma non per una scultura che si fa levando, a colpi di scalpello, bensì per quella che si fa plasmando, in una muta danza delle dita. E soprattutto, Paola incontra l’estetica del frammento. Di quel frammento archeologico rinvenuto, custodito e impreziosito da ciò che manca. E decide di riattualizzarla, per dar forma alla lacunosa frammentarietà della memoria umana.

Una memoria fatta a brandelli.

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A testa in giù

Era forse davvero arrivato quel momento?

Valentina era seduta sul pavimento di quella casa ancora spoglia ma già piena di lei..

Non aveva portato nulla con sé: una scatola con qualche vestito, delle scarpe, una borsa piena di fogli. Davanti a lei un portafotografie.. Sua sorella in abito da sposa la stava osservando dal bianco e nero della sua immagine. La guardava dritto negli occhi e le diceva “Non ti preoccupare, ci sono io con te, vedrai che presto passerà tutto, è solo un momento, una fase”.

Si stende a terra e guarda il soffitto. La luce a risparmio energetico si stava lentamente scaldando, disperdendo un velo giallastro per la stanza.

Valentina aveva deciso di prendere in mano la situazione e con questa anche la sua vita. Era giunto il momento di essere sinceri una volta per tutte con gli altri e, soprattutto, con se stessa. Aveva lasciato Marco.

Non c’era stato un vero e proprio addio, solo uno sguardo, poche parole, un abbraccio e poi lei aveva attraversato la strada. Quando si era girata lui era già sparito. Non era rimasto ad osservarla da lontano, non la stava più controllando. M. si era dissolto tra la gente. E lei, in quell’istante, pur non vedendolo, si era sentita sollevata.

Non provava dolore, rimorso o paura. L’avevano avvisata che sarebbe stata dura abituarsi. Perché si sa: rimanere soli è sempre un’incognita.

“Guarda che non è facile trovare una persona così disponibile, così brava… Farai fatica. Io ho paura che un giorno tu te ne pentirai” le diceva suo padre al telefono. “Secondo me hai solo un po’ di stanchezza. Tutti i rapporti sono così Vale. Non ti puoi aspettare di avere le stesse emozioni che provavi quando vi siete conosciuti!” le dicevano la amiche fidate. “Datti tempo, fatti un amante. Ma niente di serio, mi raccomando. Poi torna da lui e vedrai che apprezzerai ancora di più il sentimento che vi lega” leggeva sui giornali.

Eppure, pur nella paura soffocante che le avvolgeva come un panno intriso di cherosene il cuore, Valentina sentiva che questa volta lei doveva rischiare. “Adesso o mai più”,  sentiva rimbombare dentro di sé. Ed era vero. Solo lei sapeva infatti che se non avesse lasciato ora M. sarebbe rimasta con lui per sempre. Perché l’essere umano è così. Cerca sicurezza e compagnia: nella religione, negli amici, nei partiti, nei mercati di quartiere… Partire? Andare lontano? Non omologarsi? MA TU SEI PAZZA!

“Quella non crede nel matrimonio! E’ senza morale!”, questa era il bisbiglio che aveva udito, suo malgrado, il giorno stesso in cui aveva lasciato il posto di lavoro.

Tuttavia, bisognava riconoscere che M. l’aveva sempre assecondata nella sua “amoralità”. E lei lo aveva amato proprio per questo. Perché lui era diverso, lui andava oltre e l’aveva saputa curare. L’aveva seguita, dedicandosi con pazienza e devozione, asciugando le sue lacrime e riversandole calore nel cuore.

E adesso allora, cosa le stava succedendo?

Onestamente… Valentina non lo sapeva spiegare! La sua prospettiva però era cambiata. Lei stava sì osservando il mondo, ma a testa in giù.

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Per voce creativa: Giovanna Lacedra intervista Elisa Cella/ blog Woman’s art

 

“PER VOCE CREATIVA” è un ciclo di interviste riservate – e dedicate – alle donne del panorama artistico italiano contemporaneo. Per questa sesta intervista, Giovanna Lacedra incontra Elisa Cella (Genova, 1974).

Elisa disegna disegnando circonferenze. Elisa dipinge dipingendo circonferenze.
Circonferenze piccole, poi piccolissime, poi minuscole, che lei ama definire “pallini”.

Il cerchio – che i Rinascimentali consideravano forma perfetta ed emblema della divina perfezione –, diventa per lei l’idioma, l’elemento modulare che le permette di edificare l’infinito a partire da uno zero.

La sua mano gira in tondo, purista e perfezionista, vortica e trova per ogni centro il suo cerchio. Si potrebbe pensare che tutto questo lavoro sia opera di un compasso ipercinetico. Mentre invece così non è. La mano è libera, la tecnica lenticolare, e il risultato impeccabile.

“Io disegno a pallini”, mi dice sorridendo. E continua: “…da quando ho iniziato non ho più potuto smettere!”.

Una circonferenza chiama l’altra. Ma soprattutto, circonferenze di differenti dimensioni, accostate le une alle altre, costruiscono percorsi, corpi, somatizzazioni, combinazioni multicellulari, bio-astrazioni, sinapsi e topografie di sensazioni.

Questi  “pallini” non nascono per puro caso. Sono, anzi, figli di una mente ordinata e scandagliatrice. Sono il risultato creativo di una formazione culturale scientifica e matematica.

I “pallini” sono la “cifra” di Elisa Cella. Sono quell’unità che si moltiplica al fine raccontare – su  carta o su tela –, il desiderio, il dolore, la perdita, la depersonalizzazione, il contatto e l’assenza di contatto.

La vita, nella sua circolare ciclicità. E il mistero dell’universo fuori e dentro di noi.

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PER VOCE CREATIVA: GIOVANNA LACEDRA INTERVISTA ROBERTA UBALDI/ BLOG WOMAN’S ART

“PER VOCE CREATIVA” è un ciclo di interviste riservate – e dedicate – alle donne del panorama artistico italiano contemporaneo. Per questa quinta intervista, Giovanna Lacedra incontra Roberta Ubaldi (Terni, 1965).

“L’artista rende visibile quello che l’anima sente.” È questo il principio fondante della ricerca di Roberta Ubaldi. Una ricerca rara e peculiare, che l’ha istantaneamente allontanata dall’uso di supporti tradizionali ed espedienti prevedibili. Per rendere visualizzabile l’invisibile, Roberta ha scelto di adottare il linguaggio della “corrosione”. La corrosione come metafora della vita stessa: del tempo, della memoria, dell’erosione emotiva. O del ricordo rimosso, che riemerge dal calderone dell’inconscio sotto forma di brandello. Un pezzo della propria storia affiorante da una reazione chimica.

Per ottenere questo risultato, l’artista sceglie di schivare la tela, servendosi invece di ferro e ruggine. Pittura ad olio su lamiera ossidata. Una tecnica originale e laboriosa, in cui l’attesa della reazione chimica diviene tempo della meditazione; il tempo in cui lo sguardo pazientemente cerca, tra i grumi e le macchie,  gli elementi che la pittura ad olio andrà a definire. Le tracce casuali dell’ossidazione e della calda cromia bruno-rossastra della ruggine, suggeriscono immagini, apparizioni che piano si materializzano in una precisa zona della superficie ferrosa. Superficie trattata, dunque vissuta, e per questo capace di tramutarsi in un reperto menmonico. E i reperti sono sempre anatomici. Più spesso, si tratta di mani. Mani imprendibili appaiono come visioni abilmente plasmate dal caso. La corrosione crea macchie, e come diceva Leonardo; ”…dalle cose confuse l’ingegno si desta a nove invenzioni” (Libro di pittura, f. 35 v, cap. 66) . La tavolozza è calda. La linea, rinascimentale. La cura del dettaglio, accurata, sapientemente sposa la macchia. La ruggine diviene metafora della mutazione. Emblematica traccia di quanto è stato. Testimonianza di ciò che il tempo ha corroso, non logorandone il ricordo visivo. Che  resta, come ogni ricordo, definito in certi dettagli, sfilacciato e smembrato in altri.

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