“PER VOCE CREATIVA” è un ciclo di interviste riservate – e dedicate – alle donne del panorama artistico italiano contemporaneo. Per questa terza intervista, Giovanna Lacedra incontra Elisa Anfuso (Catania 1982).
“Fabbrico neve.
Fabbrico qualche sogno
Già fuori moda.
E attendo che il mondo
Fuori
Si ricordi delle sue stagioni.”
Questi i versi con cui si apre la sezione “works” del suo sito ufficiale. Il corpo di un’adolescente in slip e canotta appare ancorato ad una pianta posta sul pavimento, per mezzo di un laccio sottile. La pianta è abilmente risolta con la sintesi di un segno grafico che non è solito inciampare in errori. E in questa immagine che accoglie il visitatore è già leggibile la peculiarità della tecnica grafico-pittorica adottata dall’artista: colore ad olio per il realismo degli incarnati, dei capelli, degli sguardi e dei panneggi, e pastelli utilizzati per i disegni che generalmente si articolano sulle pareti di fondo e che sembrano collocare il soggetto all’interno di un disegno infantile. Come se quella giovane donna – protagonista di ogni tela –, si fosse smarrita in uno dei suoi tanti disegni di bambina. O come se da quel disegno, realizzato tanti anni prima sulla pagina a righe di un quaderno di scuola, fosse sbocciato un mondo parallelo, in cui sogni e ricordi vivono intrappolati. Un mondo-stanza-della-memoria, dove anche il tempo ha smesso di scorrere, e dove l’anima bambina di questa donna che non avrebbe mai voluto crescere, vive in dolcissima cattività.
È l’anima pura, ancora in attesa di tutto ciò che avrebbe potuto essere, impaziente di spiccare il volo per afferrare il sogno più bello, e che ora vive prigioniera in un tempo che non è più. È l’innocenza ancora viva, che fatica ad abitare il mondo degli adulti e che fa di quelle quattro mura invase da disegni, il castello della propria nostalgia.
“Fabbrico qualche sogno già fuori moda…” sibila l’infante prigioniera di un corpo ormai cresciuto.
Leccornie, dolciumi, balocchi. Zucchero filato e piatti sporchi accatastati su linde tovaglie. Il cibo come metafora del desiderio, di una dolcezza contemplata o divorata. E lei è sempre lì, così candidamente sola.
In “Io sono il mio tempo”, uno dei primi cicli pittorici realizzati dalla Anfuso, questa giovane donna copre con una mano gli occhi della sua bambola, oppure sogna di impiccarsi nuda usando come corda una collana di perle sospesa ad una gruccia.
Nel ciclo titolato “SOgNO” , la fanciulla anfusiana, vestita come una bambola, sfida l’equilibrio salendo in punta di piedi su una sedia di paglia per afferrare un hula hoop, o ancora, sogna di volare legando aereoplanini di carta ai suoi boccoli liberi nel vento. Mentre nel ciclo più recente, titolato “Di sogni e di carne” sono i bianchi a prevalere, dalla lattescenza della pelle al chiarore della camicia a quello di una tovaglia sgualcita.
E l’infanzia è quasi una cella metafisica arredata di sogni.
Elisa Anfuso
Elisa Anfuso vive a Catania, dove ha studiato Pittura presso l’Accademia di Belle Arti e dove si è abilitata all’insegnamento di Discipline Pittoriche con un master in Didattica dell’Arte.
Intervistiamola:
G.: Scegli alcuni aggettivi che ti descrivano in quanto Donna:
E.: Irrequieta, istintiva, consapevolmente contraddittoria, intima e idealista.
G.: Cos’è una Donna secondo te?
E.: È il completamento di quell’altra metà dalla cui unione si origina la vita. Ho una visione cosmica. Poi, tutto il resto, sono architetture sociali, destinate a mutare nel tempo e nello spazio. Ma la Donna è innanzitutto uno dei due termini della dicotomia primordiale da cui nasce la vita. è un peccato che nel tempo gli uomini se ne siano dimenticati.
G.: Come vedi collocata la Donna nella società contemporanea?
E.: Personalmente penso che nella società contemporanea donne e uomini dovrebbero avere pari diritti, ma ciò non significa essere uguali. E temo che questo si stia perdendo di vista. Di fatto si continua a lottare per i diritti e nel migliore dei casi ci sono delle leggi a imporli, come se non fosse naturale averli. Inoltre trovo che ci sia un’attenzione eccessiva all’immagine e al corpo, che rischia di ridurre e ricondurre l’essere donna, l’identità femminile, alla sola sfera sessuale. Ed è questa degradazione la ferita che dovremmo ricucire.
G.: Il ruolo dell’artista-donna nel corso della storia e nel contemporaneo:
E.: Credo che nel corso della storia, il mondo si sia a lungo privato della possibilità di scoprire anche un altro modo di sentire le cose, impedendo la libera espressione artistica alla donna. E credo che oggi la sua libertà sia nell’ordine naturale delle cose. Abbiamo così tanto da dire, da svelare e da raccontare!
G.: Qual è il dovere di un’artista-donna nella società contemporanea?
E.: Nessun dovere. La nostra pelle patisce le cose in modo diverso ed in modo diverso le racconterà. E in questa diversità c’è un dono.
G.: Come vedi collocata l’arte nella società contemporanea?
E.: Trovo che l’arte oggi sia essenzialmente “mercato”, troppo mercato che sottrae importanza al valore emozionale. E mi pare anche che si offra poco sostegno ai giovani artisti. D’altra parte, però, vedo un grande fermento…
G.: Quando, come e per quale ragione una Donna come te diventa un’Artista?
E.: Non ho mai scelto di diventarlo, nè di esserlo. Eppure al contempo non poteva essere altrimenti. E’ una di quelle cose irriducibili nella loro urgenza. è il mio modo di essere al mondo, è un brulicare inquieto che senti dentro e devi portare fuori, per dargli un ordine, un senso. Ed è una di quelle sensazioni che mi sono sempre appartenute e che crescendo ho imparato a curare.
G.: Cosa osservi del mondo, e cosa di ciò che osservi diventa materiale da plasmare con la tua creatività?
E.: Nel mondo cerco innanzitutto un senso ad ogni cosa. Ho un’indole poetica, non narrativa. Mi annoia osservare l’accadere di eventi fine a se stesso. Nel mio piccolo mondo ideale tutto dovrebbe avere un senso di cui tutti dovrebbero essere coscienti. Quindi mi concentro molto sulle dinamiche, sulle relazioni, sul modo in cui le cose avvengono, sul perchè. Mi affascinano le nevrosi, le varie manifestazioni dell’emotività e dell’istintualità, ma soprattutto mi affascina il modo diligente con cui tutti cerchiamo di tenerle a bada. L’uomo è una creazione assurda.
G.: Quali sono le tematiche della tua ricerca artistica?
E.: La natura umana, il precario equilibrio che fa convivere l’anima (il soffio, come ricorda la sua etimologia) con un corpo di carne viva ed esigente. Le inquietudini che da questo nascono, le tentazioni, le scelte, le paure. I bisogni e i desideri. Adesso, ripensandomi per risponderti, mi accorgo che nelle ultime opere sto sempre più intimizzando, forse quasi stringendo il cerchio. Nelle opere di qualche serie fa ho dipinto porte e finestre che rimandavano ad un altrove. Poi, di opera in opera, la stanza è diventata sempre più piccola e sempre più vuota. E l’altrove si ridotto ad una tavola neppure imbandita, ma spoglia, sulla quale sono raccolti piatti (ormai) vuoti, o è posato un pasticcino. E noi siamo alberi, siamo radici che devono nutrirsi dalla terra. E siamo rami che vogliono toccare il cielo. Affronto queste tematiche per cercare in prima persona delle consapevolezze, e per indurre lo spettatore a cercarle. Vorrei, con la mia pittura, suggerire qualche nuovo percorso raccontando delle storie, perchè le narrazioni danno forma al mondo. E in un momento storico come il nostro, in cui imperversa l’analfabetismo emotivo e l’anestetizzazione delle coscienze, provocare una qualunque riflessione, sarebbe già un grande traguardo.
Elisa Anfuso in mostra
G.: Quale tecnica adoperi? E quale supporto?
E.: Dipingo ad olio su tela, ma non sono una purista della tecnica. Per alcuni soggetti adopero i pastelli a matita. L’olio, con la sua corporeità, enfatizza la carne e la materia delle cose, i pastelli al contrario, per il loro tratto infantile, rimandano ad una dimensione diversa, quella del pensiero, che trova così la forma tramite cui concretizzarsi.
G.: Vuoi raccontarci la genesi di un tuo lavoro, step by step?
E.: I miei lavori a volte nascono sottoforma di visione, improvvisa ed inevitabile. Altre volte sono pensieri che si incrostano gli uni sugli altri. Ho un piccolo set fotografico, qualche storia da raccontare, qualcuno ad interpretarla o talvolta a suggerirla. basta un gesto, uno sguardo, una posa inaspettata. E così le mie foto diventano i bozzetti dei miei quadri. Anche se, davanti alla tela bianca cambia tutto. La lentezza della tecnica ad olio mi porta a soffermarmi a lungo, a sovrapporre di continuo colori e pensieri. Realizzo una traccia a matita, lavoro i fondi e la stesura base ad acrilico, poi l’olio, mezzitoni/ombre/luci e velature su velature. Infine lavoro spesso coi pastelli, dimentico la tecnica, la forma, i colori e lascio che sia semplicemente la punta di una matita, nel modo più elementare possibile, a continuare il racconto.
G.: Quali sono i tuoi riferimenti storici? Quali artisti o correnti hanno in qualche modo contaminato e influenzato il tuo lavoro?
E.: Piero della Francesca, Mantegna, Hayez, Van Eyck, i Preraffaelliti. Tutti in qualche modo accomunati da un certo simbolismo più o meno manifesto e da una sorta di “congelamento” del tempo che sposta la realtà in un piano differente e sembra lasciarla lì, sospesa sulla superficie, per potervi scavare dentro.
G.: Ad ispirarti ci sono anche letture particolari? O musica?
E.: Tarkovskij, Terry Gilliam e Tim Burton per le loro visioni. Galimberti, per il suo
sguardo lucido ma appassionato sulle dinamiche dell’uomo contemporaneo. Nietzsche, cui devo parte della mia coscienza. Moltheni, Alessandro Grazian, i Baustelle.
G.: Scegli 3 delle tue opere, scrivimene il titolo e l’anno, e dammene una breve descrizione.
E.: Inizio con “Moscacieca, 2012” :
Il titolo rimanda ad una dimensione ludica ed infantile. Ma questo è accaduto tanto tempo fa, i piatti sono ormai vuoti. Lei ha divorato tutto. Eppure lo zucchero filato l’ha risparmiato: quello, per nessuna fame al mondo vorrebbe mangiarlo. Ma loro si, le mosche sono avide di zucchero rosa. E lo assalgono, lo coprono, sottraendolo alla nostra vista.
La seconda opera è “La terza tentazione, 2013”
La domanda che ci si pone ora è: quanto pesa un pasticcino? Quanto pesa cedere alla tentazione? Così tanto da far scoppiare il palloncino con cui vorresti volare via. Non è rimasto altro che l’ultimo peccato e l’ultima salvezza.
Elisa Anfuso, La terza tentazione, olio e pastelli su tela, 2013
Infine, “Cannibalismo, 2012”
Ancora una volta è a tavola si consuma la vita, a tavola si mettono in scena i bisogni, si costruiscono precarie architetture di desideri, pronte ad essere sacrificate nel banchetto, quando non resta altro. Sappiamo essere spietati noi esseri umani.
Elisa Anfuso, Cannibalismo, olio e pastelli su tela, 2012
G.: L’opera d’arte più “femminile” della storia dell’arte :
E.: Le fotografie di Francesca Woodman, narrano di una femminilità inquieta, tormentata, consapevole, carnale ma al contempo incorporea. Poetica e persino sensuale.
G.: L’opera d’arte che ti fa dire : “questa avrei davvero voluto realizzarla io!”?
E.: “The Murmur of the Innocence 5” di Helnwein
G.: Le mostre più rilevanti e memorabili del tuo percorso sino a qui:
E.: SOgNO, presso la Galleria Artesia di Catania. Abbiamo riempito la galleria di sedie, orologi, gabbie e scarpette che sembravano essere usciti fuori dai quadri e avere invaso lo spazio. E, da poco conclusasi, [Solitudo], una bipersonale con Jessica Rimondi, presso lo Spazio Arte Duina. Il confronto con un’artista apparentemente tanto distante da me, ma profondamente affine, è stato stimolante per entrambe.
G.: Work in progress e progetti per il futuro:
E.: Ho iniziato una collaborazione importante con la Galleria Augustin di Vienna e sto ricevendo proposte per una nuova personale. Ma non faccio mai progetti a lungo termine.
G.: Il tuo motto in una citazione che ti sta a cuore:
E.: “La paura degli esseri umani è paura di essere umani” – Marta sui Tubi
Per approfondire: www.elisaanfuso.com
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