Camille sapeva cosa voleva. Sapeva dove voleva arrivare.
Il marmo, la pioggia di polvere sotto i colpi di uno scalpello. L’arte.
Era questo il suo destino. E già a tredici anni prese a modellare le sue visioni nell’argilla.
Ma una donna che scolpisce è una presenza sconveniente. E così lei divenne presto la vergogna della famiglia.
Camille Claudel
Sua madre, soprattutto, non accettava questa sua vocazione. La considerava un capriccio, una sorta di ribellione. Una vera e propria trasgressione. Suo padre, invece la sosteneva, come anche suo fratello Paul.
Ma Camille agognava l’approvazione materna. Quel disprezzo fu per lei causa di una profonda sofferenza. Che la portò lontano dalla famiglia.
Non poteva cambiare se stessa; non poteva svuotarsi della sua grande passione per compiacere sua madre.
Fu una rottura, brusca, dolorosa, ma necessaria.
Camille era ostinata. Per nulla ordinaria, né prevedibile. Era ribelle, selvaggia, aggressiva.
Camille, la scostante.Camille, Camille la screanzata. Camille la claudicante.
Camille voleva scolpire. Era questa la sua diversità.
Maschile nel suo agire, femminile nel suo sentire. Emotivamente agitata. Passionale e irruente. Amava con ferocia. Sognava con ferocia. Scolpiva con ferocia.
Le prime lezioni di modellato le prese a Parigi, nello studio di Alfred Boucher, che rimase folgorato dal suo talento. Poi arrivò l’incontro della sua vita, quello con August Rodin.
August Rodin – Danae (in posa Camille Claudel)
Iniziò a frequentare il suo ateliér in rue de l’Universitè, scolpiva e posava per lui come modella. Ma il rapporto tra allieva e maestro si trasformò presto in una passione indomabile.
Nel pulviscolo di quell’atelier gli sguardi si cercavano. E il magnetismo divenne presto amore. Un amore scardinante.
Lo scultore aveva già quarantadue anni e soprattutto, era legato ad un’altra donna, Rose.
Eppure, non si trattò di semplice passione, ma di compenetrazione piuttosto, tra arte e amore, tra marmo e carne. È tagliata nella materia di un sogno, Camille. Imprendibile e inossidabile.
“Il signor Rodin si avvicina a Camille con tenerezza, scostandole un ciuffo scuro che le copre gli occhi – i suoi occhi, sconfinate, devastate voragini – con le mani imbrattate di creta. Vede il profilo di lei controluce. <<Mia pietra nera vibrante d’amore, tu sai quello che Michelangelo aggiungeva: solo le opere che si possono far rotolare dall’alto di una montagna senza che se ne rompa neppure un pezzo sono valide; tutto ciò che si frantuma durante una simile caduta è superfluo. Tu appartieni a quella razza, nulla potrà spezzarti, per quanto alta possa essere la montagna. Sei tagliata in un materiale eterno!>>. (Dal romanzo di Anne Delbée – Una donna chiamata Camille Claudel)
Un’allieva che s’innamora del maestro. Una donna che s’innamora dell’arte.
Entrambe le traiettorie risultano temibili e disdicevoli per una donna, nella Francia di fine Ottocento.
Ma Camille, cammina dritto. Pur zoppicando, avanza. Altera e certa. Nessuno la piega.
Avanza con la fierezza negli occhi. La bocca serrata sotto un naso perfetto. Lo sguardo affilato. Il genio in agguato. Più felina di un gatto e più dura del marmo. Vuole fare la scultrice. Ed ecco, il sogno avvicinarsi all’improvviso.
Nel 1888 Camille espone al Salon des Artistes Francais. L’opera, riceve anche una Menzione d’Onore. Si tratta di Sakountala ( L’abbandono). Forse la scultura più bella, più intensa, più carica di pathos chela Claudelabbia mai realizzato.
Sakountala – L’abbandono
Ritrae l’amore tra Sakountala, figlia adottiva di un eremita, e il principe Douchanta. L’episodio è tratto da una storia indiana del V secolo: i due si uniscono in matrimonio con un antico rito nuziale, ma quando il principe ritorna al suo castello, per sortilegio si scorda di lei. Sakuntala si reca al castello per ricordargli il loro amore mostrandogli , l’anello che lui le aveva regalato come pegno d’amore, ma questo le scivola nel fiume e si perde. Lo ritrova un pescatore e lo riporta al principe, il quale ricordando tutto d’improvviso, corre da lei che nel frattempo aveva partorito il figlio concepito con lui la notte delle nozze.
E, scherzo del destino, poco tempo dopo Camille rimase incinta.
Rimase incinta ma dovette abortire quel figlio. E questa fu una nuova ferita, che non cicatrizzò mai. Il rapporto con Rodin si deteriorò, fino a concludersi intorno al 1892, anno in cui ebbe una breve avventura con il musicista Debussy, escogitata allo scopo di farlo ingelosire. E proprio a questo periodo risale un’altra delle sue opere più emozionanti: Il Walzer.
Una coppia danza appassionatamente, sospesa tra terra e cielo, come se la materia stessa fosse fluttuante. Le due creature vivono in perfetto equilibrio tra movimento e stabilità.
Il Walzer
La storia tra Camille e August finisce. Lei cerca di elaborare il lutto di questo amore ormai spento. Lui non le apparterrà mai, ma la scultura sì. E’ un suo sogno. È un suo diritto.
Nascono opere di una poeticità spiazzante: La suonatrice di Flauto, L’implorante, e soprattutto il complesso de L’età Matura, interpretazione scultorea di quel doloroso distacco. Mai altra opera seppe interpretare meglio un così grande travaglio sentimentale.La perdita. L’abbandono. L’umiliazione.
Una donna matura (Rose) porta via con sé l’uomo (August) – centro della composizione – dall’implorante preghiera d’amore della fanciulla inginocchiata (Camille) e che vanamente si prostra, alle sue spalle. Lui se ne va, portato via per sempre da un’altra donna. Se ne va. Non si volterà per guardarla ancora negli occhi. Non ne avrà il coraggio. Il capo semireclinato lo rende rassegnato a quell’addio. Nello sguardo supplichevole della fanciulla un legame viene reciso per sempre. Ma potrebbe essere – come qualche psicanalista contemporaneo ha sostenuto – che stratificata sotto questa palese interpretazione, vi sia una seconda chiave di lettura: la creatura implorante è Camille bambina a cui la madre, che mai la accettò, porta via la presenza fisica e dunque l’amore, di suo padre.
L’Età Matura
L’esperienza vissuta con Rodin le fece germogliare dentro il seme di un’ossessione che crebbe sempre più. Quella della persecuzione e del plagio. Camille viveva nel costante terrore di essere privata delle sue opere. Temeva che qualcuno potesse sottrargliele. O che lo stesso Rodin la facesse spiare per rubarle le idee. E così, spesso, in preda alla sua stessa nevrosi, le distruggeva.
Distruggeva le sue piccole sculture con colpi di martello, o gettava nel focolare del suo studio, le carte, i suoi bozzetti.
Le sue crisi si fecero più violente, tanto da convincere la madre e il fratello, ad internarla in un manicomio. E lì rimase, per trenta interminabili anni e senza la possibilità di ricevere visite.
Sua madre non andò mai a trovarla. E questo accrebbe il suo dolore. Quella madre tanto agognata e temuta alla fine aveva trovato il modo di liberarsi di lei.
Trascorse quei trent’anni sola, depressa, e affranta. In preda a sentimenti autodistruttivi.
Una bestia ferita, da un sogno fattosi coltello.
Nel 1935, otto anni prima di morire, in una lettera ad Eugène Blot scrisse:
“Sono precipitata in un baratro… Del sogno che fu la mia vita, questo è un inferno”.
“Camille fra le quattro pareti bianche. La sofferenza dura e amara. La sofferenza che torce il cuore. Camille colpisce il muro con entrambe le mani, grida il nome agli specchi, come se potessero donarle la creatura amata, la luce che aspetta, la lotta che vuol riprendere. Abbattimento e soprassalto, rifiuto, quando è necessario che si riconosca vinta, eppure sa già che agli occhi del mondo sarà eternamente la triste eco dell’essere amato…”
(dal romanzo di Anne Delbée – Una donna chiamata Camille Claudel)
Morì, nella pazzia, il 19 ottobre 1943. Aveva 79 anni.
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